Ungheria
L’Unione Europea conta 28 paesi membri: dal 1° Maggio 2004 l’Ungheria è uno di questi.
Un paese che per decenni ha fatto parte di quell’Europa dell’Est “controllata” dall’Unione Sovietica, paese con cui confinava. Alla caduta dell’impero dell’URSS, l’Ungheria ha interamente ottenuto il riconoscimento della comunità internazionale fino a divenire parte integrante dell’Europa.
Considerata la posizione geografica, altamente strategica dal punto di vista militare, i paesi già membri hanno visto di buon occhio questo arrivo.
Senza parlare dell’aspetto economico: la mano d’opera a basso costo avrebbe aumentato la competitività delle Industrie europee, le queli avrebbero potuto localizzare in Ungheria molte delle loro attività.
Insomma, tutti contenti, a parte la Russia. Ma la Russia ha già il suo daffare con la vicina Ucraina per potersi preoccupare degli ungheresi.
E cosi’ la “povera” Ungheria ha integrato l’Europa. Certo, povera: come altro potrebbe definirsi un paese che esce da una situazione talmente difficile, in netto ritardo economico e di sviluppo e che ha bisogno di aiuto per risollevarsi ? Uniti si puo’ riuscire, siamo tutt Europei!
A scuola ci insegnavano le vicende di un certo Francesco Giuseppe.
Ma uno dei tanti – enormi – problemi della scuola è che le cose te le sbattono li’, da imparare su un libro, distaccate dalla realtà. La cosa ancora più interessante è che te le fanno studiare più volte, le stesse cose. Studi la Storia alle scuole elementari, alle medie e alle superiori. Sempre la stessa, in maniera sempre più approfondita. E sempre tanto teorica.
Non ricordo mai di aver studiato il fascismo, a scuola : non c’era tempo, arrivava alla fine del programma. Eppure era forse la cosa più importante da capire per noi nati negli anni ’60.
Quindi immaginiamoci Francesco Giuseppe (ma è vero che lo soprannominavano « Ciccu Peppi » ?) : me l’immaginavo come un cattivo coi baffi che batteva sempre gli italiani.
Questo signore non era un generale : era Imperatore d’Austria e Re d’Ungheria, Croazia e Boemia.
In parole povere era il capo dell’Europa, in quel periodo in cui l’impero austo-ungarico la dominava .
L’Ungheria di un secolo fa, per chi non lo sapesse… anzi, per chi non se lo ricordasse, visto che l’abbiamo studiato a scuola… era un paese più grande dell’Italia : fu a causa della sconfitta nella prima guerra mondiale che si è vista togliere più dei due terzi del proprio territorio per ridursi a quel « piccolo » paese che è oggi.
Gli ungheresi non sono sono i bulgari o i rumeni : hanno una loro identità ben precisa, un forte carattere; sono, possiamo dirlo, dominanti.
Sono dei dominanti repressi da quasi un secolo, che si sono aperti all’Europa ma che sono pronti a richiudere le porte ogni volta che ne hanno l’interesse.
Un lungo muro blocca oramai l’accesso degli emigranti. E se qualcuno passa c’è la giornalista di turno che sgambetta padre e figlio per farlgli sbattere la testa in terra aspettando l’arrivo della polizia (vedere notizia di Settembre 2015 e relativo video).
Gli stessi emigranti, che dall’Italia vengono salvati nelle acque del Mediterraneo, per l’Ungheria possono restare li a crepare.
Sembra che bisogna separare la politica dal business, se non fosse che tutta la problematica sociale lega l’una all’altro.
Ma l’Ungheria è un paese interessante per gli Occidentali .
Ci si puo’ produrre a basso costo, dicevamo, e consegnare la merce in tutta Europa molto più facilmente che producendo in Cina : il che compensa il costo del lavoro, leggermente più elevato di quello Cinese, ma pur sempre estremamente competitivo rispetto a quello Francese o Italiano.
« E allora via, localizziamo le fabbriche in Ungheria », si sono detti sia i piccoli imprenditori che le grandi multinazionali. E tutto è andato bene per un decennio.
Finché, come al solito, succedono quelle cose che, come dire, nessuno si aspetta. O meglio, a cui nessuno vuole pensare, perché si sa che arriveranno e che faranno male.
Con l’intensificarsi delle offerte di lavoro e della ricerca di manodopera, in Ungheria il tasso di disoccupazione è arrivato a Zero. A zero.
Un ungherese puo’ lavorare dove gli pare, quando gli pare e se gli rompi le palle se ne va alla fabbrica vicina dove lo pagano il 10% in più. E’ cosi che capita di assistere a delle situazioni paradossali di « turismo » di lavoratori, ovvero di operai che cambiano azienda con una frequenza impressionante : vengono assunti al 10% in più del salario precedente, vengono formati per 3 mesi, imparano il lavoro per altri 5 mesi e poi vanno a trovarsi un altro posto in un’altra fabbrica.
Se poi nella stessa zona si impiantono delle nuove industrie, allora diventa una vera pacchia : i nuovi arrivati vanno a cercare gli operai al cancello di uscita delle fabbriche per convincerli ad andare da loro.
Le consequenze cono evidenti: se un’azienda ha bisogno di 1000 persone per lavorare, si ritrova facilmente con 100 persone in meno, con un tasso di assentesimo gigantesco, con delle spese di formazione importanti e con un’attività di recrutamento estremamente intensa.
Se la stessa azienda, poi, opera in dei settori dove una mancata consegna significa centinaia di migliaia di Euro di penalità (come il settore automobilistico), la situazione diventa ingestibile.
Cosa fare ? Bhé, se non ci sono più operai in Ungheria bisogna andare a cercarli altrove. Ma dove ?
In Romania ? Non ce ne sono.
In Slovacchia ? I salari sono ancor più alti che in Ungheria e nessuno vuole muoversi.
In Polonia ? Perché no ? Si, ma non ci sono abbastanza volontari : se ne fanno venire magari 60, ma ne restano ancora altri 40 da trovare.
Ma dove ? Chi potrebbe accettare di andare a lavorare in Ungheria ad un salario non certo entusiasmante ?
Bene. Ci sono due categorie di operai che possono accettare : quelli che hanno un salario ancora più basso e quelli che non hanno lavoro.
I primi sono i Cinesi, almeno per ora ( vista la velocità a cui il loro salario aumenta ogni anno).
I secondi sono gli Italiani del Sud.
« Ottimo! », chiamiamo tutta questa gente per andare a lavorare in Ungheria.
Abbiamo delocalizzato le fabbriche in Cina perché costavano poco.
Poi le abbiamo delocalizzate in Europa dell’Est perché costava « quasi » poco ma era vicina.
Abbiamo mandato in cassa integrazione o sull strada milioni di persone, sbattute fuori dal mondo dell’industria perché troppo care.
Ed ora gli diciamo : qui guadagnavi 100 e ti abbiamo licenziato perché in Ungheria ne bastano 35. Pero’ se ci vai tu, in Ungheria, te ne diamo 120 e ti paghiamo vitto e alloggio.
Agnelli aveva costruito le fabbriche al Sud per evitare l’emigrazione e pagare meno.
Ora si costruiscono le fabbriche all’estero per favorire l’emigrazione e pagare di più.
Un po’ come il paziente che cambia medico perché il suo è bravo ma caro ; però poi il nuovo, meno bravo e poco caro, lo pianto in asso quando sta male ; allora torna dal vecchio chiedendogli se puo’ curarlo pagandolo ancora più di prima !
Ed i Cinesi ? I Cinesi, buoni buoni, continuano ad imparare, a fare meglio, a guadagnare di più, a lavorare di meno. E quando c’é l’occasione ne approfittano per imparare ancora e guadagnare ancora.
Ma alla fine, in Ungheria, i Cinesi non ci andranno, no. Perché ? Perché non fanno parte dell’Europa e gli Ungheresi gli « stranieri » non li accettano. Non costruiscono muri, con i cinesi : basta la burocrazia a rendere il loro arrivo impossibile.
I polacchi resteranno solo un mese: poi se ne tornano a lavorare a casa e, con quello che hanno guadagnato di più, si pagheranno una rata della macchina.
Gli italiani arrivano; chissà quanto resisteranno.
E l’azienda non arriverà quindi mai a 1000 persone. Sarà obbligata a spostare la produzione in un altro paese : ma dove ? Farà marcia indietro nel paese di origine ? Impossibile, troppo caro ! Meglio cercare un altro posto meno caro dell’Ungheria, con più mano d’opera e sempre nel continente Europeo.
Ma un tale paese, esiste ?
Si, si chiama Ucraina.
Come questa nostra azienda, molte altre stanno iniziando questa seconda ondata di delocalizzazione Europea.
Ed in Asia sta per succedere la stessa cosa : un apppartamento intorno alle maggiori fabbriche impiantate in CIna costa ormai come a Pisa. Il costo della manodopera cresce a vista d’occhio.
Bisogna cercare altrove, là dove ci sono i costi più bassi del pianeta. Ci sarebbe l’Africa (i cinesi localizzano già là alcune delle loro proprie attività) ma la comunicazione ed i rischi sono troppo alti.
Allora rotta per l’India ed il Vietnam : la seconda delocalizzazione Asiatica passa da li.
Questa seconda ondata durerà una ventina d’anni : il tempo che i salari dell’Ucraina si livellino a quelli dell’Ungheria, i quali si saranno nel frattempo allineati a quelli Spagnoli. E che i salari del Vietnam raggiungano quelli della Cina, che nel frattempo si saranno livellati con quelli dei Greci.
A quel punto, fra vent’anni, le fabbriche ritorneranno a casa loro e le cose ricominceranno da come erano state lasciate.
Gli italiani del sud riprenderanno a lavorare e potranno finanche rientrare a casa per la pausa pranzo.